LA CUCINA DI STRADA E’ ARTE DI COMUNICARE

Si mangia per strada, da secoli, per necessità, per fare in fretta, per risparmiare. Ma anche per il piacere di condividere un’esperienza con persone che, dietro al banco, sono lì tutti i giorni a fare il loro lavoro con passione e impegno. Girando l’Italia alla ricerca delle tradizionali ricette dello street food nazionale, abbiamo avuto il privilegio di scoprire una realtà gastronomica “viva”, che pareva ormai relegata a fiere paesane o espressioni folkloristiche di alcune comunità. Da Genova a Palermo gli incontri sulle strade del gusto sono stati più di quaranta. Nelle pagine che seguono abbiamo voluto raccogliere e sintetizzare, nella loro immediatezza e semplicità, le voci più rappresentative di questi “eroi del quotidiano”: esprimono valori che purtroppo nel nostro Paese oggi non sono apprezzati come si dovrebbe.

Umberto, Paolo, Denis, Giambattista, Fiorella, Giuliano, Roberto, Alessio, Lucia, Pierpaolo, Silvana, Paolo, Rosanna, Maria, Melania, Ruggero, Stefano, Andrea, Zè, Augusto, Gino, Enzo, Antonio, Enzo, Cristiano, Rocky, Fabio, Salvo. Sono ragazzi e ragazze, uomini maturi e signore, farinotti e pizzaioli, piadaiole e meusari, laureati e diplomati, friggitori e trippaie: tutti accomunati dall’orgoglio di conservare una tradizione, il più delle volte familiare. Sono artigiani che esprimono valori quasi perduti nella società italiana. Impegno quotidiano pesante, ma coinvolgente. Legame con la famiglia che ha insegnato loro il mestiere. Ricerca della qualità, perché nessuno ha detto che un cibo popolare debba essere scadente. Piacere di avere un contatto umano schietto con i clienti. Voglia di mantenere vivi i contatti con il proprio territorio e la sua storia. Sogno di portare all’estero un’attività conosciuta soltanto in un quartiere cittadino. Battaglia per difendere le peculiarità di una preparazione, a volte chiedendo la Igp, come per la focaccia di Recco, a volte invece respingendo la tutela europea, perché troppo blanda. Interesse economico per un’impresa diventata redditizia, anche per l’utilizzo di prodotti agricoli a rischio di estinzione. Importanza della ricetta tramandata di generazione in generazione, da custodire gelosamente segreta. Abilità manuale come valore da difendere. Impegno contro la criminalità organizzata, rifiutando la logica del “pizzo”. In estrema sintesi, il savoir faire italiano che si innesca sulla cultura del prodotto, della terra, della storia.

Non è facile la vita di queste persone che lavorano sulla strada e per il cibo di strada: a volte hanno difficoltà a resistere alla globalizzazione, alle sirene di chi vorrebbe cancellare secoli di storia. Eppure in tanti sono ancora là, a Livorno come a Napoli, a mostrare il volto di un’Italia che ha fiducia nel futuro, nonostante tutto. Alcune specialità, come le piadine, sono passate dalla casa alla strada per ragioni di necessità, dopo la crisi di un’industria che ha lasciato senza lavoro tante giovani donne. Negli Anni Sessanta in quel di Cesena quelle signore si sono rimboccate le maniche e hanno deciso di offrire ciò che sapevano fare in piccoli chioschi improvvisati. Ora la loro scommessa è vinta, trasformatasi addirittura in un business.

«Siamo quello che mangiamo»,diceva il filosofo Ludwig Feuerbach. Ma il cibo è anche il carburante della storia, come dimostra la cucina italiana. Non soltanto è importante ciò di cui ci nutriamo, ma anche come è confezionata ogni vivanda e chi la prepara. I racconti in prima persona che seguono dimostrano che esistono ancora, nelle nostre città, “paesaggi culturali” da difendere e conoscere. La cucina di strada è anche arte della comunicazione, poiché il consumo del cibo da fatto privato diventa pubblico. E ci rende tutti più allegri, come le persone che si raccontano, da Umberto a Salvo. A loro, alla loro voglia di continuare, diciamo grazie.